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Bruno Ollivier "Racconti"

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Nuvole
In una trattoria del "Cacciatore" aspettavo il ritorno di mia moglie. Avevamo portato la nostra bambina a Villa Revoltella ad esercitarsi con i suoi pattini a rotelle.
Ero lì, tranquillo, rilassato, gustavo il verde che mi circondava, il sole che emanava i caldi raggi di quell'ottobre avanzato.
Osservavo il cielo e pensavo alla sua vastità.
Quanto piccolo ero io dinanzi alle cose che potevo vedere! Ero grato al mio pensiero per farmi capire di non essere proprio un nulla, anch'io ero qualcosa, magari piccola, insignificante, eppure partecipavo, offrivo il mio piccolo contributo collaborando con i miei simili alle attività quotidiane.
In quel momento gustavo la mia solitudine, mi sentivo contento di me stesso, della mia famiglia, delle cose che mi circondavano; e come sempre accade quando ci si sente tranquilli, si è portati a osservare le cose con più interesse. Il pensiero riflette più intensamente, e molte volte non trovando gli aggettivi per indicare la qualità profonda di quello che si vede, ci si mette a fantasticare.
E appunto in questa esaltazione spirituale il mio pensiero fantasticava su due piccole nuvole.
Le vedevo rincorrersi nel cielo; sembrava che giocassero, volteggiando nell'aria con tanta armonia da non stancarmi di osservarle.
Una scimiottava l'altra con tale sincronismo che rimasi meravigliato della perfetta affinità dei loro movimenti. Avevano una figura geometrica irregolare che non diceva nulla della loro struttura, eppure nell'insieme erano tanto belle. Dovevano contenere un vapore acqueo tanto leggero da apparire trasparentissime.
- Povere nuvole - pensai - siete destinate a trasformarvi in goccioline d'acqua per poi cadere sulla terra assetata! -
Giocavano saltellando spensierate, quando d'improvviso, vidi una nuvola di colore grigio scuro fermarsi a breve distanza ad osservarle. era una nube dal colore tetro, di una tinta quasi spettrale, aveva un aspetto rabbioso, temporalesco. la sua formazione deforme, imprecisata, stonava all'armoniosità, alla delicatezza delle altre due; mi sembrava che desiderasse assorbirle, e più cercava di avvicinarsi, più attente stavano le altre due, irritandola. La nube grande spazientita di rincorrerle si fermò e pareva dicesse:
- Non vi vergognate di stare tutto il giorno pigre, non avete altro da fare ? Nello spazio non c'è tempo per giocare, unitevi alle altre e insieme date tinta al vostro aspetto, assumete il colore della penombra che è la tinta della nostra forza; e così unite lacereremo il cielo, fra lampi e tuoni lasceremo cadere sulla terra il nostro contenuto elettrico. Ci divertiremo a trasformare la nostra composizione acquea in chicchi d'acqua indurita in forme sottili di ghiaccio. Che soddisfazione vedere la nostra forza distruggere i raccolti, rovinare i tetti delle case, far straripare i fiumi, invadere d'acqua le compagne. -
A questo punto mi sembrò che le due nuvole fossero nervose, forse non volevano accettare l'invito. I loro movimenti erano impazienti, rabbiosi, si allontanavano una dall'altra, dovevano essere in disaccordo. Ora giravano lentamente su sè stesse, osservandosi, scrutandosi; poi giravano in senso rotatorio e sembrava che questo movimento fosse di aspettativa per poi aggredirsi a vicenda.
Guardavo con curiosità la scena, ansioso di vedere la fine. La nube nera ogni tanto rincorreva ora una ora l'altra forse per convincerle.
Tutte e tre si davano battaglia; forse pure lassù esisteva la lotta per la sopravvivenza.
Poi vidi la nube nera allontanarsi, aveva creduto non degno d'intrattenersi con quelle due stupidelle.
Le due nuvolette rimaste sole mi sembravano più tranquille; erano felici di aver scampato il pericolo di essere coinvolte in un nubifragio.
Una di esse avrà detto:
- Era imprudente unirsi per fare del male alla terra, il cielo oscuro ci avrebbe punito! Andiamo, lasciamo il sole splendere, dimostriamoci sagge. -
-Hai ragione - riuspose probabilmente l'altra - guarda un pò da che pericolo siamo sfuggite, volevano farci del male fra noi come certi uomini della terra! -
Le vidi unirsi, e a braccetto, lentamente, si sparsero nell'infinito.
Mia moglie nel frattempo mi raggiunse, e mi disse:
- Che cosa pensi ? -
L'aria aveva di primavera.
Accarezzai i capelli della mia bambina e risposi:
- Quanto sono belle le nuvole! -
E lei, guardando il cielo sereno chiese: - Di quali nuvole parli ? -
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Forza atomica
Rido di me stesso.
Rido della nostra specie, viscida, impalpabile, irragiungibile.
Tu hai iniziato a impossessarti della prima pietra appuntita e la scagliasti contro chi non la possedeva. Ti piaceva la smorfia di dolore, e io ridevo del tuo sguardo animalesco.
Ridevo più forte quando rubasti la spada al tuo simile e con la stessa squarciasti il suo ventre. - Che ridere! -
Ridevo ancora più forte quando un piccolo tubo sferico getto fuori da un piccolo coso di ferro, colpendo un uomo che stramazzò a terra.
Ridevo continuamente, quando vidi due grosse navi che sputavano fuoco, e la gente cadeva a terra come fosse pasta frolla.
Ridevo a squarciagola quando vidi una cosa grande che volava nel cielo, aveva la forma di un'aquila, quando, improvvisamente perse un pezzo che gli apparteneva e andò a sbattere contro la terra.
Quanto ridere, quando vidi il ferro liquifarsi, le case disintegrarsi, ogni logica sparire. La gente sventrata mi guardava con delle smorfie che prima non avevo mai veduto.
Risi per tanti anni senza potermi mai fermare.
Poi un giorno un uomo rubò un ordigno, era un cilindro grosso e alto, che s'innalzò dalla terra e poi ripiombò al suolo.
Ridevo convulsamente, quando quell'ordigno sprigionò una luce immensa.
Quel chiarore mi fece paura. Allora non risi più.
Per tanti anni il mio ridere non fu altro che un pianto angoscioso.
Tutto intorno fu sconvolto, disintegrato. Nella terra scossa s'aprirono delle fenditure, degli squarci, poi tutto divento rovente, incandescente.
Fu il nulla.
La superfice si rivesti di crosta lavica.
Millenni passarono ed infine un fiore germogliò.
Era l'inizio del processo di formazione di una nuova specie.
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La storia di un francobollo
Molti anni fa io ero la centesima parte di un foglio di carta, senza figurazione o un cenno allegorico che indicasse la mia personalità; ero pressato fra una montagna d'altri fogli, e mi sentivo in pericolo di rimanere soffocato.
Un giorno mi fecero entrare in una grande stamperia. Con mio stupore vidi i fogli bianchi entrare in una macchina ed uscirne tutti colorati. Quanta paura presi, quando un coso mi risucchiò a se e mi gettò sotto un cilindro, il quale abbassandosi minacciò di schiacciarmi. Perdetti i sensi;
quando mi ripresi con meraviglia mi accorsi che non ero più un pezzetto di carta insignificante, ero diventato qualcuno, ero un piccolo francobollo venuto alla luce assieme a tanti altri.
La nostra veste rappresentava un uomo dalla popolarità molto contrastante. C'era chi lo guardava con rabbia e gli sputava in faccia e c'era chi scattava sull'attenti e gli diceva: -"tu sei tutti noi"!
Dall'alto in basso, davanti e di dietro, emanavo un odore di petrolio: annusai i miei vicini, pure loro avevano la stessa puzza, eravamo in tanti ad avere le stesse caratteristiche. Con una monetina tutti ci potevano acquistare.
Mi accorsi che ero un nulla senza un preciso avvenire e me ne rattristai. Un francobollo due volte più grande di me, attaccato su una busta, vedendomi rattristato mi disse:
-Non allarmarti, devi sapere che molto tempo fa, anch'io sono nato in questa tipografia e posso spiegarti la vita a noi destinata. Vedi, appena sarete asciutti vi porteranno in un grande magazzino per essere poi distribuiti nei vari uffici postali; voi che siete più piccoli, normalmente girerete per la città e all'interno del paese; noi che siamo più grandi ci spediscono all'estero, giriamo tutti i paesi, ascoltiamo le più svariate lingue. Sapessi quanto ho viaggiato! Ho visto tante belle cose! Figurati, ho percorso due continenti; poi non trovando il destinatario mi rispedirono al mio paese d'origine. Vedi quell'uomo che maneggia quell'arnese: bene, lui è il mio padrone. Mi sbalotta da tutte le parti e non decide nulla per il mio avvenire.
Ma non sono in ansia, perchè da altri miei fratelli ho appreso che lui vuole bene a noi francobolli. Ci pulisce, ci cura in ogni particolare, e poi ci racchiude in un grosso libro; dunque la nostra vita non è tanto brutta come a te sembra. Tu devi sperare, puoi essere acquistato da qualcuno che ti voglia bene, puoi finire nelle mani di qualche collezionista, o essere spedito per il mondo, intraprendendo una magnifica avventura. -
Trascorsero un paio di giorni e una mattina mi trovai in un edificio postale fra le mani indaffarate d'una corpulenta impiegata, quando allo sportello s'affacciò una donna. Mi sembrava preoccupata nel chiedere un francobollo.
- Maledetta guerra - mormorò - sono tre mesi che non ricevo notizie; povero figlio mio. -
- Vedrà - l'incoraggiò l'impiegata - presto tutto sarà finito e vostro figlio tornerà sano e salvo. -
- Grazie delle vostre buone parole - rispose la donna. - ma sapete, l'Africa è lontana e la guerra si fa sempre più cattiva. Una madre è in continuo orgasmo per il proprio figlio, -
L'impiegata prese la cartella, ed essendo io alla sua portata di mano mi consegnò alla donna, che mi bagnò sul retro sistemandomi su una busta: poi mi fece cadere in una cassetta di ferro. Lì trovai tanti miei simili, vidi pure altri più grandi ed altri ancora di vari colori e dalle varie figurazioni. Eravamo tutti nuovi dell'ambiente e nessuno sapeva dove saremmo andati a finire. Mi accorsi che i più grandi ed i più costosi fingevano un falso coraggio: c'era al mio fianco uno che credo fosse stato il più cattivo del gruppo: arrivò a dirsi: - tu, piccolo francobollo, di scarso valore, finirai in qualche stufa o sperso nel bottino della spazzatura. -
Io, essendomolto impressionabile, sentivo tutta la mia composizione vibrare di paura e pregai che giungesse il momento di separarmi da colui che credeva d'essere un padreterno.
Finalmente ci raccolsero e ci portarono in un centro di smistamento; lì ognuno prese una tremenda botta in faccia insudiciandoci la veste nuova con un colore nero che pure quello sapeva di petrolio; poi ci racchiusero in diversi sacchi e ci spedirono per diverse direzioni.
Ero tanto stanco che m'addormentai.
Al mio risveglio mi trovai su una grossa nave. Vidi molti uomini, avevano la stessa giacca, gli stessi pantaloni, le stesse scarpe. Intuì che erano soldati mandati a fare la guerra, perchè il loro padrone era in discordia con un altro padrone.
Pensai a loro dicendomi: - Poveri voi, esseri della terra, siete come noi piccoli francobolli. Il vostro padrone vi prende e vi spedisce dove lui desidera, in ogni circostanza dovete tacere, non vi lascia mai parlare. Ma perchè accettate tutto, perchè obbedite se sbaglia, lui è solo e voi siete in tanti, avete la possibilità di difendervi!
Il sole emanava una luminosità quasi accecante.
Degli strani uccelli volteggiavano nel cielo seguendo la nave, poi li vidi allontanarsi per essere sostituiti da enormi aquiloni. Al loro apparire gli uomini si misero a correre da tutte le parti, molti maneggiavano dei grossi cilindri che sputavano fuoco, facendo un gran fracasso. Pure gli aquiloni gettavano dei cosi di ferro; quando cadevano nel mare non succedeva nulla, ma se raggiungevano la nave provocavano dei grossi buchi scuotendo tutto quello che era intorno e lasciando uomini immobili dipinti di rosso. Ebbi paura di quel colore che gli uomini chiamavano sangue: mi avevano già insudiciato di nero, ed ora se mi insudiciano di rosso, rischio di perdere la mia fisionomia di francobollo; se pure valendo poco non desideravo perdere del tutto il mio valore. Presagivo già di finire i miei giorni in fondo al mare quando gli aquiloni si allontanarono.
Sulla nave subentrò il più completo silenzio, interotto ogni tanto da strani lamenti. Gli uomini che potevano camminare, si misero ad asciugare il sangue di quelli che si lamentavano, altri esaminavano quelli che stavano silenziosi, e dopo averli palpati da tutte le parti, li ammucchiavano uno sopra l'altro come se fossero tanti pezzi di legno.
Finalmente mi presero dalla nave e mi portarono in un luogo dove tutto attorno erano disseminati degli strani arnesi che gli uomini chiamavano carri armati; vidi pure dei grandi cilindri come quelli che avevo visto sulla nave e che servono per lanciare fuoco.
Un uomo chiamò altri uomini. Ognuno prendeva una lettera con il francobollo e ne diventava il padrone.
Ero molto emozionato quando un bel giovane dallo sguardo buono e intelligente mi prese in consegna. Mentre apriva la lettera mi accorsi che le sue mani tremavano. Lo guardai in faccia e con mio dispiacere lo vidi piangere. Era molto giovane, quasi un ragazzo. Le lacrime bagnarono la busta, alcune caddero su me, dandomi la senzazione che pure io piangessi, partecipando al suo dolore.
Quando finì di leggere mormorò: - povera madre mia, quanto devi soffrire. Io non ho paura della morte, ma ho paura che tu muoia sapendo della morte mia.-
Cominciavo a capire a che cosa realmente serviva la guerra. Ora sapevo: era una cosa brutta, miserevole, incivile, che serve a distruggere gli uomini e le cose. non so perchè me la presi con quegli uomini che avevano delle striscie d'oro sul berretto; poi me la presi con quelli che avevano le striscie d'oro sulle maniche, me la presi pure con i fracobolli più grandi di me, con i numismatici che ci monopolizzano, con l'uomo della stamperia che mi aveva composto.
Improvvisamente si fece un rumore assordante: fuoco saliva verso il cielo e fuoco scendeva sulla terra. Gli uomini cadevano a terra, altri correvano montavano sopra di loro. Indubbiamente vivevo in un mondo cattivo, desideravo ritornare un semplice pezzetto di carta bianca per non vedere gli uomini odiarsi fra di loro.
Ad un tratto il rumore si fece più forte e il mio padrone si rigirò su se stesso. Fu per un attimo in piedi, con le braccia rivolte verso il cielo, poi cadde a terra: un pezzo di ferro aveva lacerato la busta, sfiorando la mia forma rettangolarw e fermandosi nel petto del ragazzo.
Assieme alle diverse cose che appartenevano al mio padrone finimmo per molto tempo in un cassetto. Un giorno ci spedirono con una nave. Su un cartoncino che accompagnava l'involto stava scritto: il soldato... è morto eroicamente sul campo di battaglia...
Fra fuoco, lampi e tuoni arrivai al punto della mia partenza.
Due mani tremanti mi presero.
Con mia meraviglia riconobbi la donna che mi aveva spedito. era la madre del mio padrone.
Ora vivo con lei, e non riesco a fermare le sue lacrime.
- Povero me, piccolo e infelice francobollo! -
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Primavera in cimitero
Il cielo azzurro, spumeggiante di piccole nuvole proteggeva la primavera avanzante.
I bimbi si svestivano assaporando l'ebbrezza dell'aria.
Tutto germogliava festoso, spuntava l'erba, nascevano i fiori, gli alberi rifiorivano. Si risvegliava la vita della natura. Le rondini indaffarate preparavano i nidi con mirabile capacità architettonica.
Le giornate fredde dell'inverno erano passate, le finestre s'aprivano per far passare il benefico sole.
I ragazzi sorridevano felici, impegnandosi in svariati giochi.
La bellezza della stagione primaverile, la luminosità dei primi raggi del sole, si oscuravano in un antro di infelicità dinanzi al dramma di una bambina, che non poteva inserirsi nella spensierata felicità dei compagni.
Le vibrazioni del suo animo erano impegnate in un solo sentimento di dolore: la perdita della sua cara mamma.
Sola, la bimba al camposanto piangeva.
- Mamma - mormorava singhiozzando,
- "Hai lasciato sola la tua bambina! Dove sei ? Fatti vedere! Sono sola, prendimi, raccoglimi, portami via, non posso vivere senza di te!" -
A questi richiami la mamma non poteva rispondere, riposava sotto una massa di terra, adornata da tanti fiori.
Lì sotto, nell'ombra, i fiori non olezzano; ma i singhiozzi giungono e rifioriscono in fede.
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Fiori neri
Quanti fiori neri spuntano, li volevano morti, invece tornano a rifiorire.
In un'epoca lontana l'uomo bianco li scoperse, strappandoli da dove erano nati; li portò in un continente lontano. Quel paese non era la loro terra, vivevano stentamente, con fatica. L'innffiavano così poco che molti morirono. Poi li portarono al mercato. Un altro uomo bianco li guardava, li palpava, contrattava il prezzo e si proclamava loro padrone.
Passarono molti anni ed i fiori neri venivano mercanteggianti nel modo più vergognoso. Finchè un giorno un fioricoltore iniziò ad unirli, a curarli, a difenderli.
-"Fermatevi"- spesse volte gridava il fioricoltore: -"Allontanatevi, non cercate di distruggere i miei fiori, loro crescono in pace nel mio giardino!" -
Poi diceva amorevolmente: - "Miei fiori, figli, ricchezze della terra, abbiate pazienza, siate calmi, rifiorite nel giusto prato, vi mescolerete e incrociandovi un giorno nascerà il fiore della pace".
Poveri fiori neri, adornate con la vostra presenza il palcoscenico delle attività umane: fate prodezze di rappresentanza nello sport, nella cultura; gli altri fiori vi applaudono, vi ammirano; ma quando appassite o crescete stenterelli, senza pietà vi gettano nella spazzatura.
Ora, quel fioricoltore che vi voleva bne, l'uomo bianco lo ha ucciso, ma il suo spirito rimane e si tramanda ad altri, che si prenderanno cura di voi.
Non riusciranno a strappare le radici da dove vi hanno trapiantato, perchè parte di quella terra è pure vostra.
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La bambola della fata
Una fata vestiva di bianco, il cui drappo splendeva come l'argento, percorreva un sentiero sconnesso di campagna.
In fondo al viottolo era sistemata una capanna. Vi abitava una bambina ammalata, la più povera e più buona del paese. Non conosceva suo padre, si era addormentato tanti anni prima e riposava in un luogo lontano.
La madre, povera donna, costretta a lavorare per guadagnare il pane quotidiano, durante il giorno doveva lasciarla sola.
La bambina sdraiata su una panca tremava dal freddo, aveva la febbre, il cuore pulsava tanto forte da farla gemere dal dolore.
-"Mamma"- mormorava singhiozzando -"Dove sei ? perchè tardi a venire ?"
Improvvisamente nell'aria si formò una nuvola, sembrava scendesse dal cielo, aveva riflessi d'argento. La nube muovendosi, si mise a luccicare come fosse composta da mille diamanti. Con stupore la bambina vide tratteggiata l'immagine di una fata.
- "Ho tanto freddo" - si lamentava.
- "Non ho la forza nemmeno di alzarmi. Aiutami, ti prego" - implorò con le mani congiunte.
- "lo so che stai male" disse la buona fata - "Ho sentito in fondo al cuore i tuoi richiami. Non devi rattristarti, il Signore dal cielo ti guarda e ascolta il tuo soffrire. Vedi, è lui che mi ha suggerito di venire per aiutarti e renderti felice". -
Prese la bacchetta magica e picchiò leggermente sulla panca. Come per incanto nella nube si mescolarono tanti colori che uniti assieme assunsero la tinta dell'arcobaleno.
La bambina osservava ammirata, divertita, i colori in movimento che ruotavano per la stanza, si sovrapponevano, si staccavano per poi ritornare a ricomporsi, stavano uniti un attimo, per poi separarsi di nuovo.
La bimba avvolta dai mille riflessi, sembrava un angelo variopinto, il bianco colorito era sparito ed in lei apparve il sorriso.
- "Questi colori mi riscaldano" - mormorò - "Mi sembra di essere guarita". -
- "Sei guarita" - affermò la fata - "Alzati e vedrai !" -
Poggiò i suoi esili piedini a terra e si mise a saltellare, felice.
- "Grazie, buona fata" - esclamò - "Mi sembra di rivivere" -
- "Non devi ringraziarmi, tutte le bambini buone ottengono presto la guarigione. Ora, cara amica, devo lasciarti, altre bimbe hanno bisogno di me !" -
L'immagine della fata si dissolse.
I colori dell'arcobaleno si diradarono. La bimba si abbandonò in un lungo sonno.
Quando aprì gli occhi un grido di sorpresa uscì dalla sua gola.
Le pareti della stanza erano tappezzate di raso celeste, al posto della panca c'era un lettino così bello che mai lo avrebbe immaginato; un grande specchio ed altri mobili completavano l'ambiente.
Girò lo sguardo e si sentì soffocare: in un angolo erano sistemate tre magnifiche bambole che aspettavano d'essere abbracciate. Abituata a vivere nella povertà, era diventata così umile che non si sentiva in diritto di possederle. Girava per la stanza ammirandole da lontano, senza avere il coraggio di toccarle.
Allora, nell'aria, la voce della fata sussurrò:
- "Prendile, sono tue !" -
Tremando dall'emozione le prese, le strinse vicino al cuore e pianse di gioia.
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Teatro umano
Indubbiamente la vita è un palcoscenico, pieno di luci e vari colori. Luci radiose, scintillanti, ebbre di vita. Luci tetre, spettrali, che esprimono la morte. Colori d'arcobaleno s'innalzano, si sovrappongono, si mescolano inquadrando espressioni infinite. colori freddi, privi di tonalità che esprimono desolazione, rischiarando il palcoscenico di una luce incostante.
Cerchiamo di godere il bello, lo scintillante, ringraziando il destino di averci creato. spesse volte quando siamo felici abbiamo paura che alla nostra visione scenica appaia il colore tetro, il colore che dà tristezza, malinconia. Conosciamo il colore che offende la nostra sensibilità, mortifica, calpesta la nostra dignità: allora alla nostra visuale appare solo disgusto. Ma poi fra le quinte vediamo spuntare il colore che dà raggi d'amore, di felicità. Morbosamente ci aggrappiamo a quella luce luminosa che ci riscalda, ci anima, ci dà la forza di vivere, di continuare. Prima odiavamo persino noi stessi; ora, in questa fase benevola della vita, il palcoscenico ci appare luminoso e gli attori che lo calcano li vediamo più bravi, più brillanti, più onesti nella recitazione. Di questi improvvisi cambiamenti di luci, di colori, chi sono i responsabili? Sicuramente noi stessi, per il semplice motivo che siamo dei pessimi attori, recitiamo le varie parti disertando spesse volte le prove ed al momento della recita, per fare bella figura, allunghiamo le orecchie verso il suggeritore.
Espressioni d'immenso amore, impeti di rancore contenuto, girandole di emotività esprimono sul palcoscenico della vita, la gioia ed il dolore.
Recitiamo.
Recitiamo continuamente; ma per rovinare la commedia c'è sempre la comparsa che vuole a tutti i costi diventare attore e da attore a primo attore, da primo attore a capo compagnia, da capo compagnia a capo dei capi. Per questo susseguirsi di aspirazioni di essere primi, la compagnia sbanda, si scioglie, le luci sul palcoscenico si spengono: è finita, c'è il buio. Rimane buio per un attimo, perchè altri attori si interessano del palcoscenico. Si affacciano, osservano il buio gioiosi. Sono giovani attori con il cuore pieno di speranza. sono piccoli, piccolissimi, belli. Hanno le mani graziose, devono far parte di qualche compagnia comica tanto sono brillanti.
Strappano il sorriso solo a guardarli. Sentiamo un bene profondo per loro. Li preghiamo di recitarci qualcosa.
Quelle voci ci piacciono, hanno del puro, del limpido, dell'onesto, dell'innocente. per contentarci salgono a fatica sul palcoscenico.
Inizia la recitazione. una voce calda, armoniosa, piena di dolcezza dice:
- Non è onesto declamare il bene. Il male si declama deninciandolo. onesto tu sarai se, facendo un'opera di bene, sentirai modestia e timidezza d'averla fatta. -
Improvvisamente il palcoscenico ripiomba nell'oscurità.
Forse l'impianto generale non funziona, forse l'interruttore principale è guasto o solo una delle tante valvolette che lo compongono ? il contatore non cammina, bisogna lubrificarlo.
No, questo no !
Lubrifichiamo fin troppo i nostri ingranaggi. Allora è il sistema che non funziona. Si dovrebbero invertire i fili, cambiare il voltaggio, non continuare con il sistema tradizionale dei due fili, positivo e negativo.
A tal punto, sul proscenio si affaccia uno di quei minuscoli attori e dice:
- Signori e signore, non sarebbe saggio continuare. Ci dispiace, ma per il difetto ai nostri impianti elettrici, la recita è sospesa.
A domani. A domani....
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Mia madre
Filami che sembrano d'argento sono i tuoi capelli bianchi; gli occhi stanchi sul tuo lavoro fanno vibrare le tue mani per rendersi utili. Soffri eppure continui la tua vita di sacrifici per il bene della famiglia. Il male lo senti quando fremendo dal dolore le tue ginocchia crollano, eppure i tuoi lamenti s'affievoliscono nella tua gola per non allarmare i tuoi cari. Quanto eroismo è in te, vorresti morire, riposare per sempre, accovacciarti in un lungo sonno, eppure preferisci soffrire, ma vivere, perchè hai paura che i tuoi figli si smarriscano in questo mondo difficile.
Vigili, controlli, ammonisci, tu puoi dire tutto; l'incomprensione fra madre e figli non esiste.
Il maledetto mondo meccanico, la vita convulsa, mi costringono a trascurarti; non trovo il tempo per osservarti attentamente, giorno dopo giorno, come lo dovrei.
Ora è già troppo tardi, mi accorgo della mia colpa, e ti invoco, mia buona e povera mamma.
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Dramma in riva
Il sole signoreggiava nel cielo di Trieste specchiando i raggi sul mare in movimento.
Rondini solitarie volteggiavano nell'aria; planando verso il basso, cercavano di beccheggiare cose organiche per cibarsi. Alcuni gabbiani scrutavano il mare aspettando la loro preda. Era bello vederli scendere vertiginosamente verso l'acqua, immergere la testa, poi risalire con il loro cibo preferito.
Al largo, due piccole motonavi, facendo servizio presso i caratteristici paesetti della costa istriana, s'incrociavano salutandosi con il fischio delle sirene.
Il profumo dell'acqua salmastra giungeva alle narici, respirando, i polmoni si riempivano di salubre aria.
Il movimento che si svolgeva in prossimità del porto era lento e sereno. Sembra impossibile, eppure chi si avvicina al mare viene attratto dalla sua maestosità, si spoglia, si libera dalla vita convulsa in cui vive, sente distendere i nervi, i sensi eccittati si placano, e se prima era imbronciato da varie peoccupazioni, il suo labbro torna a sorridere.
In "Riva Tre Novembre" dinanzi alla "Società Canottieri" una macchina si fermò a due metri dalla riva. Al volante sedeva una donna, sui sedili posteriori c'erano i suoi due bambini.
Poi un errore di manovra: la vettura subì uno scossone sobbalzando in avanti, le ruote posteriori s'affacciarono sul mare, la macchina si fermò per un attimo, poi il peso della parte in bilico nel vuoto, la fece scivolare nell'acqua.
I bambini terrorizzati gridavano:
- Mamma! Mamma ! Affoghiamo. -
In preda al panico si dibattevano facendo dondolare il mezzo meccanico.
Dalle fessure delle porte l'acqua entrava abbondantemente. Con le teste contratte verso il soffitto cercavano inutilmente di sfuggire alla terribile morte.
L'acqua saliva minacciosa, ancora qualche istante, poi sarebbe stata la fine.
La donna istintivamente spinta dalla disperazione, con tutte le sue forze aprì la portiera. Il vuoto si riempì d'acqua formando un risucchio che sospinse fuori la donna aggrappata alla sua bambina.
Tutto in lei s'affievoliva, le sue capacità d'intendere erano paralizzate, aveva intuito il dramma: suo figlio era imprigionato nella vettura. Si, era certa, lo aveva veduto rintanato in un cantuccio del sedile posteriore e gemeva di paura.
Inconsciamente spinta dall'amore materno immerse la testa sott'acqua nel tentativo di soccorrere la sua creatura. Quando le forze la stavano abbandonando, riemerse gridando:
- Lì dentro nella macchina si trova il mio bambino. -
L'adagiarono su una zattera assieme alla figlia. Quasi immobile, pietrificata dal dolore mormorava:
- Bambino, bambino mio! -
Non sapeva che un coraggioso giovane, figlio di un noto avvocato, qualche minuto prima si era tuffato in acqua e, raggiunto l'interno della macchina, aveva afferrato il ragazzo per un braccio e lo aveva riportato salvo alla luce del sole.
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Il mio roseto
La mia piccola casetta era sistemata alla periferia della città. Nel minuscolo orticello mi intrattenevo delle ore, seminavo verdura, inaffiavo i fiori e sopratutto curavo con orgoglio il mio roseto.
Tutti gli abitanti della borgata ammiravano le splendide rose, per nessuna cosa al mondo me ne sarei privato. Mi stringeva il cuore quando mi chiedevano di donarne una, ne ero geloso, favevano parte di me stesso, vivevano con me facendomi compagnia. Quante volte parlavo con esse esternando la mia ammirazione; erano mie creature, io le avevo seminate, io le avevo visto crescere: quanta soddisfazione vederle sbocciare!
Il Comune più volte mi invitò ad abbandonare la mia casetta offrendomi del denaro che non compensava il valore della casa. Poi mi offrirono una permuta, ma non era di mio gradimanto, perchè considerai fuori posto il senso della giusta compensazione.
Avvocati mi chiamarono e con velate minaccie mi invitarono a concordare. Nelle udienze che si susseguirono, mi provocavono spese che assottigliavano il mio magro stipendio. La lunga contesa mi procurò un esaurimento di nervi che mi provocò la sfiducia in me stesso. Infine dovetti cedere e mi trovai in mezzo alla strada.
Andai ad abitare in una stanza con cucina che di chiaro aveva solo la luce elettrica. Ero triste, mi sentivo chiuso come in una prigione, mi mancava l'aria e sopratutto le mie rose.
Spinto dalla nostalgia, ogni mattina passavo a vedere la mia vecchia casa; di nascosto scavalcavo il muro di cinta ed inaffiavo le mie rose, In quel momento ero quasi felice, dimenticavo la brutta abitazione che avevo dovuto accettare e mi illudevo di essere ancora il padrone.
Una mattina vidi alcuni tecnici con strani oggetti. Misuravano la planimetria e stabilivano la situazione altimetrica della zona.
Era la fine della mia casetta e del mio roseto.
Demolendo le cose che mi erano appartenute, demolivano la mia vita, i miei ricordi, le mie vicende belle o brutte colà vissute.
Pregai me stesso che gli uomini si fermassero ad invadere quella zona verdeggiante con il loro maledetto cemento.
All'indomani un carro cingolato, di quelli che raccolgono il materiale, travolse ogni cosa. Operai aggrappati sul tetto della casa gettarono a terra le tegole; poi cominciarono a demolire i muri. Ero lì a guardare, preso dal dolore. Alcune lacrime bagnarono il mio viso, me ne accorsi ed ebbi vergogna della mia debolezza.
Quanto lavoro svolgeva quella specie di carro armato: caricava in un attimo i grossi camion che poi trasportavano il pietrame nei luoghi di scarico. Ora il mezzo si dirigeva verso il mio roseto.
-"Ahimè" -
Sentii i sensi scuotere il mio animo, e mi prese una stretta al cuore che mi fece male; non esitai a scavalcare il muro di cinta e pormi dinanzi al mio roseto.
-"Scava altrove!" - dissi all'uomo, -"lascia per ultimo la mia pianta" -
L'uomo fermò il mezzo meccanico, osservò le rose che sembravano incipriate dalla polvere invadente; sembrava studiasse la situazione.
Rimise in moto l'arnese scavando in profondità attorno alla pianta senza danneggiarla, finchè le radici spuntarono dalla terra movimentata. Con maestria si mise a tagliare rami, rose e parte delle radici, infine levò il rimasto e consegnandomelo mi disse:
- "Portalo a casa mia, stasera lo trapianteremo". -
Mi diede il suo indirizzo e si rimise a lavorare. Avrei voluto ringraziarlo, ma ero troppo commosso.
Il roseto si adattò alla nuova terra e l'anno successivo fiorì come sempre.
Dieci anni sono trascorsi. Io mi sento sempre l'orgoglioso proprietario di quella pianta. Devo stima all'uomo che mi ospitò da amico nella sua terra per curare il mio roseto. Gli devo riconoscenza per aver capito la mia sensibilità. Con il suo gesto aveva fatto felice un uomo.
E non è poco.
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Osservando una cartolina
Osservando una cartolina rimasi colpito da un magnifico paesaggio, tale che m'indusse ad esprimere ciò che la mia sensibilità vedeva e la mia fantasia immaginava.
Statue astratte di ghiaccio penzolano dai cornicioni delle case rustiche di montagna e si uniscono creando forme bizzarre. Sembrano arabeschi, segni emotivi d'un fantasioso pittore.
Giuochi di prestigio di un'arte creativa momentanea, ma vera, coriandoli, lame sottili, pezzi irregolari di ghiaccio luccicano sotto i riflessi di una luce incolore.
Gli alberi spogli sonnecchiano aspettando la primavera per rivestirsi. Forse soffrono, hanno freddo. non parlano, vivono la loro vita, aspettando, forse, di essere abbattuti per rendersi utili.
Quercie, abeti, pini secolari, alberi piccoli quasi figli dei più grandi, si fanno compagnia, in certi punti quasi si toccano, tanto fitta è la vegetazione.
Il tutto, ammantato di bianco, differenziato da lievi tonalità, dà allo sguardo un senso d'irreale.
gli unici pezzi di roccia, non coperti dal vivo candore, sono le più alte cime dei monti circostanti. Correnti d'aria lasciano pulito il cocuzzolo che conserva il colore naturale. Là sulla cima, è la fine dell'elemento solido. Oltre quel limite non c'è altro che fantasia, atmosfera, lo spazio, l'infinito.
La mia immaginazione si ritrae nel tempo. mi sembra d'intravvedere l'epoca quaternaria. si profila alla mia vista una distesa di ghiaccio. soltanto le cime dei monti non ne sono ricoperte, e immagino di vedere la flora dell'epoca terziaria che resiste all'epoca glaciale. La ricchezza, la varietà botanica ricca d'esemplari, minaccia di scomparire.
Il mio pensiero torna a fantasticare sul paesaggio. Dal terreno in pendio blocchi di neve in movimento scendono verso valle, si arrestano presso qualche asperità del terreno, fissando la propria dimora; poi altre slavine vengono a ristabilirsi, il volume aumenta, finchè con un sussulto, un fruscio, planando, la massa scende più in basso, dove in un avvallamento la neve si ferma definitivamente, finchè i raggi del sole la scioglieranno, per farla ritornare acqua. Nulla si perde e tutto si trasforna.
Come esprimere il paesaggio nelle giuste misure? La parola non esiste dinanzi alla forza degli elementi che ci dominano.
Qui sento pace, tranquillità, solitudine. Il movimento convulso di vita mondana, meccanica, dove un formicolio di gente corre nervosa per la conquista del pezzo di pane, non esiste.
Tutto è calmo, tranquillo, sano. La gente è più forte, più robusta.
Sembra che la terra parli, che quel paesaggio ammonisca:
- "Voi uomini inquieti, vi credete all'apice del progresso scientifico, fuggite il vostro mondo per correre verso la luna. con bombardamenti atomici mi disturbate scuotendomi. Che male vi ho fatto, perchè non mi lasciate in pace? Gareggiate con cose più forti di voi. Dividete pure l'elemento solido che mi compone: fatelo!
Quando mi sarò seccata con un movimento sismico, tellurico scuoterò l'aria provocando un cataclisma atmosferico. Correnti d'aria calda delle zone temperate invaderanno la zona artica, la massa glaciale del Polo Nord si scioglierà; allora riderò. Sarete travolti dalla massa d'acqua, sommersi, distrutti. Perchè smuovete me che vi ospito?
Guardo ancora la cartolina che mi sta di fronte, osservo il bello, il poetico.
Mi sembra di udire un coro armonioso di voci che avvolgoo il paesaggio e annunciano che l'uomo non ha potuto togliere nulla alla natura, tutto è ancora al suo posto secondo il volere supremo. Quella verginità, quella suprema bellezza detta solo versi di ammirazione, di rispetto, di timore.
Si, di timore, perchè l'uomo non è che un verme, un nulla dinanzi a tanta eterna maestosità.
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Esame di coscienza
Nel buio della notte cammino; trascinandomi a fatica, non ho una meta, ho finito di recitare le varie fasi della vita. Non ho più dialoghi da recitare, il sipario si chiude, lo spettacolo è finito.
Sono stanco. mi affievolisco, si sta staccando dal mio essere quel poco di forza che mi rimane. Mi distendo sul selciato umido della strada: in questo luogo solitario medito.
Sento un attimo di distensione, distolto subito da un fremito nervoso.
Un inconscio mutamento d'emotività agisce sui miei sensi esauriti.
Rammento la mia vita, il tempo passato. Sento il rimpianto della rinuncia alle cose quasi necessarie.
Indaffarato dalla vita convulsa e meccanica in cui vivevo, il mio sguardo sfuggiva ciò che attorno germogliava e rifioriva. Non avevo tempo per osservare le cose belle. Preso nel vortice dell'interesse e della necessità quotidiana, molte volte cadevo in un tortuoso compromesso che deviava il mio istinto e la mia inclinazione creando in me un secondo personaggio, il quale eseguiva una seconda interpretazione.
Non ero io, non ero me stesso mentre recitavo i versi per vivere, ero un altro, che io non desideravo conoscere. Lo lasciavo fare per necessità, per spirito di conservazione, per mantenermi in equilibrio. era la vita che lo richiedeva. Mi lasciavo trascinare, pure conscio che quel comportamento falsava la mia vera personalità.
Per questo piccolo margine di sicurezza personale, non sono stato un bravo attore. La mia recitazione non è stata ampia, sincera.
Mi chiedo: esiste colui che è immune da ogni peccato, che non ha nulla da rimproverarsi? Vorrei conoscerlo, si faccia avanti! Credo che nessuno avrebbe il coraggio di presentarsi, e se lo facesse non lo crederei completamente onesto.
- Ipocrita - dico a me stesso - hai detto e fatto delle cose che non dovevi. E' tua la colpa, oppure sono gli uomini che con le loro leggi, con il loro sistema, inaspriscono la vita ?
I nostri rapporti morali si accoppiano con la nostra intelligenza ?
Si segue il cammino della storia con la nostra evoluzione, con la nostra civiltà che in questa era di modernismo ci porta all'apice della scienza meccanica? Io credo di no.
Sperperiamo miliardi per il potenziale bellico, con mostri d'acciaio fuggiamo dalla gravità terreste per domandare alla luna: "Signora, avete l'uranio?" Mentre sulla terra gli ammalati reclamano un'onesta assistenza sanitaria. Se siamo in salute, guardiamo di sfuggita quelli che soffrono.
- Oh Dio! Cosa mi succede! Sento il mio interno sussurrare, non so chi parla, non so se è la mia coscienza, o la voce di qualche antenato che ammonisce.
- Voi uomini, voi siete i colpevoli dei vostri mali. Perchè non osservate quelli che stanno dietro le vostre spalle? Soccorrete i deboli, i doloranti, i miseri, i meno abbienti, o preferite gustare l'incertezza dei rapporti umani per non subire obblighi di carità verso quelli che hanno bisogno? Se siete un gradino di sopra, guardate con commiserazione quello che sta al gradino di sotto. Quanti problemi avete da risolvere, quante piaghe da curare!
- Ora devo lasciarti, essendo io lo spirito della pace; da altri uomini devo recarmi per offrire il mio conforto. -
- Vai, vai - dissi a colui che mi aveva parlato - puoi andare, ora so che noi uomini non siamo nati uomini, ma animali. In una cosa ci differenziamo: gli animali seguono la legge della natura, mentre gli uomini seguono la legge della sopraffazione e del profitto! - che disgusto! -
Da quale fremito sento invadere il mio corpo, eppure non sono ammalato, sono soltanto stanco, forse la mia anima è ammalata, o è la mia coscienza che si ripiega su se stessa.
Non posso interrogare me stesso, prendo una decisione, mi confesso da solo, faccio un esame di coscienza, mi rendo conto delle mie debolezze, scaccio gli spiriti maligni e prego che gli uomini siano più buoni, più onesti fra loro.
Liberato da questi scrupoli, ora mi sento pulito, purificato nell'anima e nel corpo. I miei nervi si distendono; i sensi tornano a vibrare in una sonnolenta pace. Sono felice, sono libero, non soffro più, anzi sento un benessere spirituale che mi eleva al disopra di ogni sporco materialismo.
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Il professore.
Alla periferia della città si estendeva una zona di terreno la cui vegetazione era protetta da una legge comunale, che ne vietava la distruzione e limitava il volume delle costruzioni.
Dei minuscoli villini erano sistemati con ordine geometrico.
All'ingresso di uno era seduta una bambina. Il suo volto esprimeva tristezza, indifferenza. era lì, quasi immobile, guardava lontano. Ogni tanto alzava leggermente le braccia, sospirando come per esprimere la sua malinconia.
Si sentiva sola, trascurata dai genitori, i quali erano sempre in giro conducendo una vita disordinata. Le scampagnate domenicali con i vicini, poi la settimanale partita a poker, le continue baldorie con gli amici, e lei a casa. Per questo si sentiva poco amata; una solitudine gravava su quella povera bambina.
Non le mancava nulla, è vero, aveva scarpe e vestiti e le cosette voluttuarie di futura signorina.
Tutto questo non bastava. Avrebbe preferito essere vestita da poveraccia pur di avere l'affetto dei genitori.
Nelle stesse sue condizione si trovava Tonio, figlio di vicini di casa, un fanciullo di estrema timidezza, molto sensibile.
Loro due si rassomigliavano in tante cose; assecondandosi, andavano sempre d'accordo, avevano stretto un'affettuosa e salda amicizia.
Gli abitanti del vicinato li salutavano con simpatia, considerandoli ragazzi seri e composti, disapprovando il comportamento dei genitori.
La bambina seduta da quasi un'ora aspettava - "Oh, eccolo arrivare" -
Era Tonio; si presero per mano, incamminandosi verso la strada provinciale.
- "Tonio, hai portato qualche cosa?" - domandò Maria.
- "Sì, tutto quello che potevo: due bistecche, pane e frutta." -
- E' forse la tua cena?" - chiese la bambina.
- "No" - rispose Tonio in modo poco sicuro.
- "Lo sai che non voglio" - ribattè la fanciulla - "Cosa hai mangiato?" --
- "La minestra mi è stata sufficiente, e poi sono contento di fare ciò per quel povero vecchio." -
- "Anch'io, sai, gli voglio bene. Se mio padre fosse così, sarei felice. Pensa, mi sono recata dalla signora Giovanna, le ho riordinato la casa. Mi ha ricompensato con una moneta d'argento, con la quale ho comperato il tabacco, di quello che fuma il nostro amico. Eccolo che ci aspetta." -
Sul margine destro della strada un uomo, con una lunga barba scuoteva il braccio in segno di saluto. Si poteva constatare che si conoscevano da diverso tempo. C'era dell'affettuoso in quell'incontro. Il vecchio con la mano sinistra si strofinava la lunga barba, credendo di pulirsela. Baciò dolcemente la fronte dei due ragazzi. Il sorriso apparve sulle loro labbra, si vedeva che erano felici di stare assieme. Tra la fitta vegetazione era sistemata una capanna sgangherata coperta da una tela cucita e ricucita innumerevoli volte e tanto sbiadita che non si poteva indovinare il colore.
- "Venite" - disse il vecchio in tono scherzoso: "Venite nella mia sontuosa reggia" - e porse loro come seggiole due secchi arrugginiti.
- "Prendete" - offersero i ragazzi, consegnando il tabacco, il pane e tutto il resto.
- "Vi ho detto che mi viziate" - disse in tono di leggero rimprovero.
- "Accetto se voi mangiate con me. Oggi vi ho riservato delle sorprese. Per prima cosa guardate: questo per voi, prendete, è tutto quello che posso offrirvi". -
Scoperse un vecchio secchio. conteneva, non si sa come, due pezzi di ghiaccio. Nel bel mezzo si trovavano due barattoli di gelato ed alcune bottiglie d'aranciata.
Emozionati, grati per il gentile pensiero, abbracciarono l'amico non accorgendosi che una lacrima accennava a spuntare dai suoi occhi intelligenti. Si riprese, e scacciando i sentimentalismi disse:- "Oggi, per noi, è un giorno di festa. sapete, quei turisti accampati dall'altro lato della strada, ebbene, ieri hanno levato le tende e, pensate, hanno acquistato uno dei miei quadri. Mi hanno pagato bene. guardate!" - e così dicendo levò dalla saccoccia alcune banconote.
- "Festa ragazzi, festa in vostro onore. Ora aspettate un momento." -
I ragazzi attendevano, osservando incuriositi. L'uomo prerse dal carro un vecchio baule, lo aprì, prese una camicia bianca, candida, accuratamente stirata. Sembrava impossibile che un indumento così si trovasse in quel luogo; poi prese un vestito dal colore scuro, un paio di scarpe quasi nuove. erano le uniche cose decenti rimastegli.
Lui, professore di pittura, rettore dell'Istituto delle Belle Arti, lui padre di famiglia esemplare, ora ridotto ad un rottame, giudicato un mendicante, sorvegliato con sospettose intenzioni dalla polizia. Solo i due ragazzi, con la loro giovane innocenza, senza saperlo, avevano intuito il suo dramma.
Era stato realmente un bravo pittore, aveva avuto una posizione agiata conducendo una vita sana e tranquilla. A turbare la sua famiglia e poi a distruggerla, era stato un suo collega. Proponendosi amico gli rubò la moglie. Fu la fine della sua vita; giorno per giorno scese i gradini della sua condizione sociale fino ad arrivare allo stato di girovago in cui si trovava. Sentiva un sentimento di abbandono, una voglia di lasciarsi morire d'inedia, rassegnato al suo triste destino. Al momento di lasciare questa vita terena, erano venuti loro, i ragazzi, a rincuorarlo con affetto, a ridargli fiducia, ad avere uno scopo di vivere e continuare.
I ragazzi emozionati osservavano cosa faceva. Pure il somarello, che trainava quella specie di casa, guardava i movimenti del padrone che si ritirò all'interno della capanna.
Attesero un quarto d'ora, ed eccolo apparire. Non sembrava più l'uomo di prima. così vestito pareva più snello, i lineamenti fini esprimevano l'origine di studioso, il suo camminare dignitoso lo confermava.
Baldanzosi i ragazzi lo circondarono abbracciandolo, fieri di quella trasformazione.
- "Vi ringrazio, ragazzi, del vostro affetto, ma ora andiamo." -
Li prese per mano, s'incamminarono per la strada provinciale verso un Luna Park. I ragazzi, felici, sentivano il desiderio di evadere dalle loro case che sentivano fredde, vuote, senza affetto. Cercavano morbosamente l'amore paterno e l'avevano trovato nell'uomo che li accompagnava.
Giunsero sul posto senza accorgersi. Il vecchio era felice, orgoglioso delle banconote, che pomposamente levò dalla saccoccia dicendo:
- "Prendete, divertitevi." -
- "No" - risposero in coro. - non vogliamo che spendiate il vostro denaro. Ci basta guardare." -"Macchè guardare. Oggi vi divertirete!" -
Acquistò dieci corse all'autoscontro e, a fatto compiuto, i ragazzi dovettero accettare. Salirono in una delle tante minuscole vetture e l'amico li incitava ad avere la meglio sugli altri.
Improvvisamente si rattristò, sentì una fitta nel cuore. passarono nella sua mente gli anni felici, sua moglie, gli amici, i parenti, il lavoro. Tutto perduto, tutto sommerso. Sentì gli occhi velarsi, lo prese un capogiro, barcollò su se stesso e s'accasciò a terra svenuto.
Abbandonare la vetturetta e raggiungere l'amico fu cosa di un attimo. Chini sopra di lui cercavano di rianimarlo. I loro occhi erano pieni di lacrime, lacrime di dolore, di sconforto. Sentivano un bene profondo, intuirono che mai sarebbero stati capaci di staccarsi da lui.
Si formò un gruppo di persone, commentando l'accaduto qualcuno disse:
- "Deve essere quel vagabondo, accampato qui vicino" -
- "Ti sbagli, non vedi che abiti indossa, non sono indumenti da mendicante." -
Un gendarme s'avvicinò e volle chiamare un dottore.
- "No" - intervennero i ragazzi.
-" Chi sieti voi?" - chiese il poliziotto.
- "Siamo i nipoti, è il nostro nonno. Ha avuto un capogiro, ma si riprende subito." -
Infatti aprì gli occhi, si alzò con una certa fatica. Sorretto dai ragazzi, s'allontanarono dal Luna Park e tutti tre raggiunsero la misera abitazione. Riordinato il pagliericcio di foglie secche, l'adagiarono coprendolo amorevolmente con le coperte che non si sapeva di cosa fossero composte, tanto erano malconcie.
Era tardi. I due bambini ritornarono a casa. Come al solito i genitori non erano ancora rientrati. Nessuno dei due quella sera mangiò. Erano in pensiero per la salute del loro comune amico e come spinti da un senso di telepatia, tutti e due fecero la stessa cosa: nascosero il loro pasto con il proposito di portarlo al vecchio.
Trascorsero la notte in un dormiveglia. Quando spuntò l'alba, zitti zitti, con trepidazione si ritrovarono insieme per raggiungere l'amico. tutti e due avevano una borsa; dal volume del contenuto si capiva che, oltre la propria cena, vi era pure una parte che apparteneva ai genitori.
Al rivederlo, si rallegrarono. Avevano constatato che la sua forte fibra aveva superato la crisi. Tornarono a casa.
Una sgradita sorpresa li attendeva. Sull'uscio delle abitazioni i genitori gridarono:
- "Mascalzoni, indisciplinati, vi manderemo in un istituto di rieducazione. Qui spariscono pentole ed alimenti. Vi allontanate tutte le ore e dove andate lo abbiamo saputo. A trovare quel misero mendicante!" -
- "Non è vero! Non è un mendicante!" - dissero i ragazzi.
- "Ah, allora non è vero? Prendete!"- e giù schiaffi a non finire.
S'interessò del caso la polizia. Fece sloggiare il povero vecchio con un foglio di via obbligatorio, dicendogli che se fosse ritornato in quei paraggi sarebbe stato imprigionato.
Prima di raccogliere le sue poche cose l'uomo disse:
- "Vorrei salutare per l'ultima volta i ragazzi, miei amici; e poi, cosa ho fatto di male, perchè merito di essere scacciato? Non ho nulla ormai dalla vita all'infuori dell'affetto di quei due bambini. Non ho rubato, non ho chiesto l'elemosina, lasciatemi in pace, ve lo chiedo in nome della giustizia che voi rappresentate!".
- "Ora fila, parti, non farti più vedere, altrimenti ti arresteremo!" -
Con il cuore gonfio di dolore, la testa che gli batteva, partì smarrito per ignota destinazione.
Tre cose percorrevano la strada statale: un uomo avvilito, una capanna che minacciava di rovesciarsi e un somarello che ogni tanto si volgeva a guardare il padrone come per infondergli coraggio per la sua pena.
Due ore passarono, quando i ragazzi di corsa percorsero la strada statale in cerca dell'amico.
- "Avete visto una capanna, un uomo con una lunga barba bianca?" - chiedevano ai passanti.
- "Si, è passato per di qua, ha preso la strada di destra".
Correvano, correvano fino a quando si fermarono esausti. Maria non ne poteva più. Tonio la incoraggiava: -"Forza, vedrai che lo raggiungeremo." -
Era quasi buio e già disperavano di trovarlo, quando, in fondo al viale, videro una macchia nera che si muoveva dondolandosi ora a destra, ora a sinistra. Nel centro appariva una debole luce, doveva essere una lanterna.
- "E' il suo carro, è lui!" -
Non si possono esprimere l'affetto, l'amore, la sincerità di quell'incontro. Ma una cosa era certa: i ragazzi dovevano ritornare a casa.
Il vecchio diresse la sua capanna vagante verso un sentiero polveroso, e lì si fermò, tra la fitta vegetazione. Parlò ai ragazzi e li convinse a tornare a casa. Era già notte fonda. I genitori dovevano avere denunciato la loro scomparsa. Si sentivano infatti le sirene della polizia che perlustrava la zona, si udiva il latrare dei cani poliziotto che cercavano d'individuarli. Si allontanarono sempre più sul sentiero sconnesso fino a raggiungere il più completo silenzio.
Il somarello trainava la capanna, ogni tanto si volgeva come per annunciare lo scampato pericolo. Nella notte limpida la luna signoreggiava nel cielo; nei nidi gli uccelli pigolavano. C'erano solo loro tre al cospetto della natura, che li ospitava in quella solitudine come per proteggerli. Giunsero alle loro abitazioni quando era quasi l'alba.
La giustizia raggiunse il vecchio. Giustizia, quella che in molti casi ignora il suo vero significato. Lo imprigionarono con l'accusa di istigare al vagabondaggio due minorenni.
Fra le quatro mura della fredda prigione si sentì soffocare e il vecchio cercò conforto nella pittura. Si mise a dipingere con fervore creando i più bei dipinti da lui eseguiti. Caso volle, il direttore era un appassionato di quell'arte; capì subito il talento dell'uomo. Con quella sensibilità artistica non poteva essere un vagabondo; doveva nascondere un dramma quell'aspetto da mendicante.
Fece perquisire accuratamente la capanna ed in fondo al baule trovò i suoi documenti personali. Apprese che aveva la laurea d'ingeniere e la qualifica di professore rilasciata dall'Istituto delle Belle Arti, mestiere che aveva sempre esercitato. S'interessò del caso, sentiva per lui rispetto, ammirazione. indagò sul suo passato, fonogrammi s'intrecciarono chiarendo la sua posizione. Non tardò a venire la sua liberazione.
Dalle indagini eseguite si apprese una notizia che aveva il diritto di porre fine alla sua vita di vagabondo: sua moglie era morta in un incidente automobilistico. Questo fatto agì sull'onore offeso come un balsamo purificatore. Sentiva, con la scomparsa di quella donna, un'elevazione morale che lo liberava da un incubo. Finalmente colei che aveva distrutto il suo onore non c'era più, nè materialmente nè spiritualmente, non più nè con il corpo, nè con lo spirito, a turbare la sua vita. Sentì una voglia pazza di redimersi, rivoleva tutto ciò che era stato suo, le proprietà terriere, la casa di campagna, la villa in città, ogni più piccola cosa, per poter dividerla con coloro che al momento in cui una depressione morale logorava la sua anima, loro, i ragazzi, lo avevano salvato. Tutti e tre avevano bisogno della stessa cosa, cercavano l'affetto, l'amore, e l'avevano trovato. ormai si appartenevano, erano tre esseri che non si potevano dividere, sentivano un vuoto quando uno era lontano dall'altro.
Nella vita prima o dopo il bene affiora ed il male affonda. L'uomo ed i ragazzi avevano sofferto chi in un modo, chi in un'altro; ora le cose sembravano svolgersi in loro favore.
Così improvvisamente libero con la capanna traballante, si ritrovò a ripercorrere la strada. Questa volta non era diretto verso ignota destinazione, aveva una meta prefissa: raggiungere la sua casa di campagna. Doveva varcare il confine e raggiungere quel paese che l'aveva ospitato per tanti anni. Arrivato al posto di frontiera alcune guardie esaminarono il passaporto, guardandolo con sospetto. Arrivò un superiore, riesaminò i documenti. lo portarono in una stanza, lo perquisirono, ispezionarono quel coso che doveva essere la sua casa, infine lo trattennero per accertamenti.
Egli protestò: - "Sono veri i documenti, sono io il professore!" -
Il capo della polizia sorridendo come per commiserare quella bugia, ribattè: - "Qui c'è un documento che attesta la qualifica d'ingegnere. Cosa siete? Ingegnere, professore o ministro della Repubblica?" -
- "Sono ingegnere, ma non ho mai esercitato tale professione. Ma il professore sì! Informatevi!" -
- "Basta - interruppe l'ufficiale - ci informeremo, stai certo, tu che con tante qualifiche fai il vagabondo. -
Dopo quattro giorni arrivò un fonogramma con l'autenticità delle sue generalità, quindi poteva passare. Gli uomini del confine sbigottiti osservavano con curiosità quell'uomo, in quello stato miserevole, ingegnere, professore. Come mai poteva essere vero?
Dignitosamente salì sulla capanna. Soddisfatto si allontanò oltre il confine fra i saluti ora rispettosi dei doganieri. Il giorno e la notte trascorsero, ormai era vicino alla sua casa.
Maria, la vecchia domestica, forse era ancora lì. Erano passati quindici anni. Poteva avere vissuto con gli utili dei raccolti, la terra era fertile. Forse aveva trovato un'altro lavoro. Mille domande faceva a se stesso. Desiderava rivedere le sue cose, tutte.
Giunse l'alba.
Mancavano pochi chilometri per raggiungere la meta. Più s'avvicinava, più il suo cuore batteva. Era una brutta giornata: le nuvole si rincorrevano, si agitavano. Un leggero, insistente vento di tramontana scuoteva la vegetazione. Foglie vecchie, foglie d'autunno, volteggiavano nell'aria preannunciando l'inverno. Gli uccelli rintanati nei nidi sonnecchiavano, qualche contadino curvo sulla sua terra, raccoglieva quello che aveva seminato. Un somarello incrociò il suo simile che trainava la capanna ed in segno di saluto, gli leccò il muso. Alcune mucche ruminavano continuamente, due lucertole frettolose attraversavano la strada, rincorrendosi. Ogni cosa era al suo posto, nei punti prestabiliti e assegnati secondo i voleri della natura: ogni cosa, sia morta o vivente, conserva attraverso i secoli le sue funzioni.
Osservava queste cose con occhio estasiato. Per tanti anni aveva ignorato la bellezza di quel mondo già vissuto. Ora gustava tutto ciò che lo circondava.
Ad alta voce si disse: -"Fa, Dio mio, che possa vivere in pace questi ultimi anni che mi rimangono, fa che i ragazzi diventino come miei figli e possa vivere con loro."
Assorto nei pensieri non sentiva la pioggia che bagnava il suo stanco corpo.
Vedeva sempre più vicina la sua casa: un lieve bagliore filtrava attraverso le persiane socchiuse.
Silenziosamente si avvicinò e appoggiò la fronte bagnata sulla fredda finestra. Emozionato osservò l'interno. Vide Maria, consumava la cena; era seduta sulla stessa seggiola, nello stesso posto dove l'aveva lasciata quindici anni prima. Sembrava in buona salute la fedele domestica.
Un cane ringhiò verso l'intruso cercando di liberarsi dalla catena, un'altro, più lontano, abbaiò per un senso di solidarietà verso la propria razza; una volpe, desistendo di arraffare in un pollaio, fuggì: Due gatti miagolando, ora piano, ora forte, si preparavano per azzuffarsi fra loro.
Maria uscì per vedere.
La pioggia cadeva fitta, il vento aumentando, formava nell'atmosfera un vero temporale.
- "Che fate, buon uomo, all'aperto con questo tempo? Entrate ad asciugare i vostri panni, vi preparerò una bevanda calda." -
Entrò vacillando, le gambe gli tremavano: era finalmente eritornato nella propria casa, si accomodò vicino al caminetto. I tizzi di legna di rovere bruciavano emanando un calore benefico che raggiunse il suo corpo esausto.
maria non lo riconobbe.
Gustando il sapore dell'incognito, voleva attendere, prolungare quel riconoscimento. Voleva sapere ogni particolare, entrare nell'intimità degli anni passati, sapere se sua moglie era stata felice con l'uomo che aveva approfittato dell'amicizia e aveva distrutto la sua vita.
Sentiva internamente di purificarsi, si liberava dall'offesa subita, tratteggiando nel proprio io la sua vera personalità. Nell'intimià del suo essere si sentiva finalmente se stesso. Un senso di orgoglio perrsonale lo invase, non superbia ma un sentimento umano che lo elevava verso la riabilitazione.
Sulla mensola sovrastante il caminetto vide il proprio ritratto, davanti al quale un mazzolino di fiori freschi adornava la sua immagine. Ciò lo riempì di emozione, non riuscì a trattenersi, sollevò il capo dicendo:
- "Maria, non mi riconosci, a tal punto sono ridotto?" -
Udendo la voce, Maria rimase per un'attimo incerta, incredula, stupita, poi il corpo s'irrigidì. Barcollò leggermente a sinistra, poi a destra, sbandò avanti piegando su se stessa. Tentò di aggrapparsi ad una seggiola e riuscì a balbettare:
- "Voi professore" - e poi cadde a terra, svenuta.
L'uomo intervenne, la sollevò adagiandola su un divano. - "Maria, mia buona Maria." -
Rinvenne, si scambiarono fraterni abbracci. Quante domande, quante risposte, parlarono per delle ore, finchè il sonno ebbe il sopravvento e, aquietati, s'addormentarono.
Dei due ragazzi, Tonio era il più depresso. non riusciva a concentrarsi nello studio, L'insegnante più volte lo aveva ammonito per di svogliatezza, di distrazione. Era così perchè pensava di aver perduto l'unico amico. La ragazza, meno pessimista, sentiva che, prima o poi, si sarebbe fatto vivo.
Intanto i genitori continuavano a condurre la loro vita irrequieta, disordinata, ma non così intensa come una volta. Qualche sera invece di uscire, radunavano a casa gli amici, trascorrendo lunghe ore. Le baldorie erano meno frequenti. Manifestavano tentativi affettuosi verso i figlioli.
Un giorno visitò le due famiglie una donna. Era una di quelle che hanno l'incarico di assistere e curare lo spirito ed il morale della gioventù. Sapeva tutto dei due ragazzi e dell'amicizia intercorsa con quell'uomo creduto un vagabondo. In segreto approvava questa amicizia, perciò diplomaticamente, con quella delicatezza dagli accenni pungenti che solo le persone che hanno quell'incarico sanno esprimere quando occorre, ammonì i genitori tacciandoli di trascuratezza e mancata assistenza morale verso i figlioli. Ciò contribuì a disciplinarli e a guardare con più interesse i propri bambini. Questo riavvicinamento rendeva indifferenti i due giovanetti, il loro affetto era per il vecchio, il vagabondo, il professore, qualunque egli veramente fosse. Vivevano nella speranza di rivederlo, di riallacciare la vera amicizia.
Si recavano spesso dove una volta erano certi di trovarlo: nulla, era scomparso. Quando già si stavano disperando, ecco arrivare una cartolina che raffigurava un paese sconosciuto. Lo scritto diceva:
- "Miei cari e buoni amici, non vi ho dimenticato e il mio pensiero possa riaggiungervi con tenerezza. Presto ci rivedremo." - La gioia dei ragazzi fu grande.
Dopo un lungo sonno il professore si alzò con le ossa indolenzite, non era più abituato a dormire sopra un vero letto. Per prima cosa chiamò il vecchio barbiere, si fece tagliare la barba, lasciando solo un pizzo unito a forma circolare, con i baffi di media grandezza. Prelevò dal guardaroba i migliori indumenti; indossandoli sembrava ringiovanito di almeno dieci anni. La sua persona ora rappresentava un uomo di cultura, l'uomo elevato al di sopra del materialismo, di un mondo fatto di studi, d'immaginazioni vive e di cose belle.
Così trasformato si recò alla scuola dove aveva insegnato. Iniziò le pratiche per ottenere la liquidazione dei tanti anni di lavoro, vendette la casa di città e le sue proprietà terriere, acquistò una macchina di grossa cilindrata. Conservò solo la casa di campagna, affinchè la sua buona Maria potesse ancora abitarvi e vivere con il piccolo commercio agricolo.
Riordinata ogni cosa, partì.
Dopo un paio d'ore raggiunse il confine e consegnò il passaporto. Come fu quando era passato con la traballante capanna, i doganieri di sorveglianza lo guardarono con diffidenza. La fotografia di riconoscimento rappresentava un uomo con l'aspetto da mendicante, con una lunga barba, non certo l'immagine signorile di colui che avevano di fronte.. intervenne ancora l'ufficiale di servizio: riconobbe l'uomo, consegnò i documenti e inchinandosi leggermente disse:
- "Proseguite pure, professore, e buon viaggio!" - poi mormorando fra sè: - chissà perchè, prima passa da straccione, con la barba lunga e una capanna sconquassata; ora è vestito da signore, ha il pizzo e una macchina di quelle che hanno solo i ministri. Quì non ci vedo chiaro ma, per mia prudenza, è meglio lasciar correre.." -
Davvero il professore correva. Premeva sull'acceleratore, tanto forte era la smania di arrivare al più presto. Il sole emanava i raggi smorti di quel novembre avanzato. Rondini ritardatarie si apprestavano a prendere il volo verso paesi più caldi, la vegetazione stava assumendo un aspetto incolore, gli alberi spogliati avevano perso ciò che hanno di più bello.
Arrivò alla periferia della città; il cuore gli batteva da fargli male. Il rintocco delle campane di una chiesa lontana segnava mezzogiorno: era quasi l'ora che i ragazzi uscivano dalla scuola. Svoltò a destra, percorse un centinaio di metri, poi a sinistra, e raggiunse l'edificio: emozionato attese.
Eccoli apparire, erano loro, i due suoi ragazzi: uno aspettava l'altra e lui attendeva tutti e due. Passarono vicini alla macchina, la sorpassarono, allontanandosi.
- "Tonio! Maria!" - chiamò forte il professore.
Si voltarono, osservando l'uomo, senza riconoscerlo. Indecisi sul da farsi, proseguirono. Il professore li rincorse, li raggiunse e scendendo dalla macchina, disse ai ragazzi:
- "Venite fra le mie braccia!" - ora lo avevano riconosciuto e si abbracciarono fra di loro.
La gente si fermava ad osservare le loro espansioni; gli sguardi curiosi volevano apprendere, sapere, poter partecipare alla loro gioia.
I due ragazzi salirono sulla macchina, volevano andare via, spinti dal desiderio di rimanere soli. Senza accorgersi si ritrovarono nel luogo dove si erano conosciuti, lì, a destra della strada provinciale, in un prato solitario circondato da una fitta vegetazione. Parlarono, parlarono tanto, esternando il loro affetto. I loro sentimenti seguivano una linea prefissata, percorrevano concordi una strada comune. Il loro programma era uno soltanto, semplice ed onesto: volersi bene.
- "Sono felice, ragazzi" - disse l'uomo - "domani mi presenterò ai vostri genitori. Spero non si opporranno più alla nostra amicizia. Ed ora a casa!" -
Fermò la macchina nel mezzo delle due abitazioni, consegnando dei doni: non finiva mai di scaricare. I genitori osservavano la scena guardandosi bene dall'intervenire. Non aveva nessuna importanza chi fosse quel signore così ben vestito, importante era che egli donava, regalava.. Quel signore con quella macchina lussuosa doveva essere un pezzo grosso. Chissà che la sua conoscenza non sarebbe poi potuta servire a..
Come se si fossero messi d'accordo prima, i due capifamiglia uscirono contemporaneamente per ringraziare di tanta generosità, invitando lo sconosciuto nelle loro case per bere un caffè, un aperitivo, tutto quello che voleva. Le loro abitazioni erano a sua disposizione: facevano a gara che poteva avere l'onore d'ospitarlo.
Quanta ipocrisia!! Per loro, innanzi a tutto era essenziale mettere in evidenza l'utile, la convenienza, il possibile profitto. Non aveva importanza se per ottenere ciò si fossero resi meschini; non si preoccupavano di analizzare l'interno dell'uomo, se la sua anima fosse sana o ammalata, se poteva essere un sadico, un malato mentale, con quale intenzione avesse conosciuto e avvicinato i loro figlioli. Tutto questo non aveva importanza: era un ricco! Certo, se fosse stato quel vagabondo, carico di dolore e con una capanna traballante, lo avrebbero messo alla porta, chiamato la polizia...
Non fu difficile per il vecchio professore acquistare un caseggiato vicino e vivere dodici lunghi anni insieme ai due ragazzi che,nel frattempo, diventarono giovani belli e sanamente baldanzosi.
Durante tutti questi anni, il professore si era accorto che, pian piano, la grande amicizia fra Tonio e Maria s'era trasformata in amore.
Fu così che i due giovani, alla fine, si sposarono.
Il vecchio professore, ormai ammalato, devolse le sue proprietà in loro favore, con l'unica eccezione che la casa in campagna rimanesse alla buona, fedele Maria.
Un giorno mentre, quasi incosciente, stava seduto sulla vecchia sedia a dondolo, sentì i vagiti di un neonato. Quasi non gli riuscì vederlo, perchè gli occhi, lentamente, si stavano offuscando.
Sentì solo una voce: - "Piccolo mio, quello è il tuo nonno!" -
Poi fu il buio per sempre.
I due giovani, uniti, si piegarono su di lui come su un vero padre e piansero amaramente su un vero e grande bene perduto.
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